Vediamo prima la S.d.S negli umani
Con l’espressione “Sindrome di Stoccolma” s’intende quella condizione paradossale in cui una persona vittima di rapimento, sviluppa inconsciamente dei sentimenti positivi verso il suo sequestratore.
La psicologia e la psichiatria non includono questa sindrome nei loro testi in quanto viene già ritenuta un caso particolare del più ampio fenomeno dei legami traumatici, ovvero quelle situazioni in cui la parte che detiene il potere e il controllo della situazione agisce in maniera violenta verso chi si trova in una condizione di subordinazione rispetto ad essa.
Il primo uomo a coniare l’espressione “Sindrome di Stoccolma” fu il criminologo e psicologo Nils Bejerot dopo aver osservato e analizzato i comportamenti delle quattro persone sequestrate durante una rapina in una banca di Stoccolma nell’agosto del 1973.
In realtà, chi accusa questa sindrome non prova dei semplici e primari sentimenti positivi ma ne sviluppa degli altri molto più profondi. Queste persone possono provare fiducia, riconoscenza, affetto e addirittura attaccamento (come si può notare nel film “Un mondo perfetto” di Clint Eastwood) ed un alto livello di empatia che può sfociare nel senso di colpa se dovessero compiere delle azioni che creeranno disappunto nel sequestratore.
Questa sindrome si sviluppa più velocemente e intensamente in assenza di forti violenze fisiche (che invece avrebbero l’effetto di allontanare la vittima dal suo abusante) ma in presenza di piccole e brevi percosse, di deprivazioni e umiliazioni che invece il cervello riesce a giustificare trovandole logiche e giuste in quella situazione.
Ci sono delle teorie che cercano di spiegare i motivi per cui si viene a creare questa sindrome.
1) La vittima si trova immersa in una situazione in cui vige la regola del bastone e della carota, ovvero punizioni e premi dati dal sequestratore in base a come essa si comporta (cibo, acqua, bisogni fisiologici, luce, aria, ecc.). In questo caso bisogna sottolineare che il rapitore è colui che prima toglie e poi dà, ovvero nella stessa persona è presente l’individuo che, ad esempio, prima toglie la libertà e poi la ridà ma sempre a piccole dosi e in modo molto controllato e calcolato, diventando, agli occhi della vittima, non più il carceriere ma il liberatore.
2) L’Io della vittima, sentendo il bisogno di trovare un equilibrio fra le richieste istintive dell’Es e la situazione di angoscia che sta vivendo, cerca di attuare dei meccanismi difensivi in due modi, regredendo e identificandosi con l’aggressore:
a) nella regressione, la vittima assume dei comportamenti infantili, ovvero simili a quelli di un neonato che si trova immobilizzato, completamente dipendente da un adulto, spaventato dal mondo esterno che vede come minaccioso;
b) nell’identificazione con l’aggressore viene distorta l’idea che la vittima ha di lui. Questa sorta di “mettersi al suo posto”, rende tutta la situazione più tollerabile, se non addirittura giustificata, agli occhi della vittima.
In tutto questo, anche nel sequestratore avviene un’identificazione inversa: più la vittima accentua i comportamenti sopracitati, più lui ha difficoltà a farle del male. Nel sequestratore può anche scattare un senso di gratitudine in quanto la vittima ha collaborato con lui, lo ha rispettato e, dal suo punto di vista, forse, l’ha perfino amato.
E nei cani?
Quando decidiamo di prendere un cane per portarcelo in casa, quel cane è libero di decidere per se stesso oppure si trova costretto a fare quello che NOI abbiamo deciso per lui? Non è forse vero che quando portiamo via un cucciolo da sua madre e dai suoi fratelli/sorelle (magari ai fatidici 60 giorni d’età) proprio NOI diventiamo come quei sequestratori che da quel momento gestiranno il suo cibo, la sua acqua, la sua ora d’aria fuori casa, i suoi momenti di sonno e di veglia e tutto quello che potrà e non potrà fare durante tutta la sua vita?
Pensiamo a cosa ci accadrebbe se verso i 3-4 anni (circa 60 giorni per un cane) venissimo tolti dai nostri genitori per essere messi a vivere in una famiglia che non è la nostra. Avremmo già dei fortissimi traumi permanenti se la nuova famiglia fosse composta da essere umani, figuriamo cosa ci potrebbe accadere se fossimo l’unico umano in mezzo ad una famiglia di una qualunque altra specie terrestre.
Quindi si può dire che noi umani siamo perfino in grado di creare ai cani qualcosa di superiore alla normale Sindrome di Stoccolma, una Sindrome di Stoccolma interspecifica.
Vedere, riconoscere e accettare che siamo tranquillamente in grado di far insorgere la Sindrome di Stoccolma nei cani può aiutarci a scardinare l’interpretazione antropocentrica sui loro comportamenti e migliorare il più possibile la loro vita.
Penso che si debbano fare diversi passi indietro sulle idee che abbiamo di benessere canino e di sana convivenza con questi animali, partendo dal ricordarsi che quando il lupo e l’umano hanno iniziato a conoscersi (diciamo 30.000 anni), su questo pianeta c’era presumibilmente 1 milione di Homo Sapiens che viveva in grotte e capanne.
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